L’Italia sta vivendo una situazione drammatica a causa della diffusione dell’infezione da Covid-19 e i professionisti sanitari stanno pagando un tributo molto alto.
Secondo i dati diffusi aggiornati al 10 Aprile dall’Istituto superiore di sanità (ISS), in Italia dall’inizio dell’epidemia sono oltre 14.000 (per lo più cinquantenni) gli operatori sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus – quasi il 10% delle persone contagiate – e addirittura più di 100 i medici deceduti (e altrettanti sacerdoti) di cui almeno la metà accertati in modo definitivo come legati al coronavirus Sono dati peggiori di quelli registrati in Cina che si è fermata a 3300 sanitari contagiati e 23 decessi.
Questo virus ha dimostrato di diffondersi velocemente e massicciamente negli ambienti confinati: lo abbiamo visto sulle navi da crociera, nelle RSA, negli ospedali e per fortuna non ancora nelle carceri (probabilmente perché per fortuna il virus non vi è stato portato grazie al tempestivo innalzamento del livello di guardia).
E’ lecito supporre questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati? In parte sì: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa. Un recente articolo sul New England Medical Journal (a firma di Rosenbaum e colleghi) ha dimostrato che, oltre ai rischi personali che gli operatori sanitari si trovano ad affrontare, gli ospedali e il personale medico possono diventare un possibile veicolo di diffusione per l’infezione. L’articolo ha anche affrontato il problema dell’enorme percentuale di soggetti infettati che rimangono asintomatici e del loro ruolo nella diffusione dell’epidemia. Allo stesso tempo, come sottolineato dal direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, è stato accertato che in Cina circa il 41% dei casi di Covid-19 confermati a Wuhan è il risultato di una trasmissione correlata all’ospedale.
E’ quindi la scelta giusta quella di puntare sugli ospedali come luogo per dare battaglia al coronavirus?
La tendenza della malattia ad aggravarsi, soprattutto con l’avanzare dell’età è manifesta: il COVID-19 in Italia ha fatto registrare tassi di letalità del 4 percento nei cinquantenni, del 10% nei sessantenni, 30% nei settantenni, 40% negli ultra-ottantenni, con tassi dimezzati nel sesso femminile. È ora chiaro che i malati sintomatici e a rischio di progressione verso forme gravi – che nemmeno in rianimazione si riescono a trattare sempre con successo – devono essere intercettati e trattati a casa dalla medicina territoriale, con una organizzazione (e sistemi di protezione) in grado di andare oltre l’attuale modello predominante di contatto esclusivamente telefonico.
Va ribadita l’inadeguatezza del modello ospedalo-centrico per far fronte ad epidemie di questa portata, com’è diventato evidente dopo la chiusura di interi ospedali in Italia per la diffusione dell’infezione tra medici, infermieri e pazienti. Errore fatale è stato e in taluni casi rischia di continuare ad essere l’assenza di percorsi dedicati esclusivamente al Coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari. Inoltre, va chiarito che nessuna epidemia si controlla con gli ospedali, come si è forse erroneamente immaginato: è sul territorio che va espletata l’identificazione dei casi con test affidabili ma anche con rapidi kit di screening e la sorveglianza con la tracciabilità dei contatti, il monitoraggio e l’isolamento.
In queste ore stanno emergendo situazioni di grave sofferenza proprio nelle persone più fragili e delle loro famiglie: quanti bambini autistici privati delle attività nei centri diurni e degli interventi riabilitativi, o pazienti psichiatrici e oncologici, oppure affetti SLA ed altre malattie cronico-degenerative hanno difficoltà a vedersi garantiti i servizi socio-sanitari essenziali (dalle riabilitazioni ai centri diurni fino alle chemioterapie).
Dando per scontato che si sia riusciti dopo due mesi a risolvere l’incredibile criticità legata alle forniture di dispositivi di protezione individuale adeguati (dopo le famose mascherine di “carnevale” fatte arrivare al Presidente De Luca), è tempo di guardare alla luce fuori dal tunnel. Questa seconda fase impone di eseguire test di screening a risposta rapida in maniera sistematica a tutti gli operatori sanitari operanti nel pubblico e nel privato – inclusi i medici di medicina generale e operatori di case di riposo o RSA, centri diurni – al fine di verificare ogni mattina l’assenza degli anticorpi IgM (quelli indicativi di infezione acuta in atto e contagiosità). Lo screening deve avvenire mediante test a risposta rapida validati, registrati presso il Ministero della Salute italiano: ce ne sono, non hanno costi elevati (poco più di 10 euro) e se leggiamo le schede tecniche ci accorgiamo che presentano una specificità del 100% nel rilevare i casi negativi con risultato disponibile entro 15 minuti. Certo, per gli operatori sanitari è utile pensare di confermare i test a risposta rapida con tamponi faringei e analisi PCR almeno ogni settimana. Infine, è proponibile immaginare che anche tutti coloro che si recheranno sul proprio posto di lavoro possano vedersi sottoporre a test rapidi ogni mattina per confermare il proprio stato di negatività.
Infine, da epidemiologo credo che questa grande estensione dei test sierologici rapidi e/o di tamponi nasofaringei con analisi PCR potrà essere utile per testare un ampio campione, ben rappresentativo della popolazione italiana nelle varie regioni e nelle diverse classi di età, in modo da avere un’idea chiara della penetrazione del coronavirus nel nostro Paese, stante l’attuale variabilità dei criteri con cui abbiamo eseguito oltre 1 milione di tamponi (riscontrando circa 165.000 positivi). La maggioranza dei positivi, infatti, rimane sconosciuta perché asintomatica. Più affidabile indice è il dato dei ricoveri ordinari o in terapia intensiva per Covid, oltre al dato di mortalità. Ma anche quest’ultimo rimane problematico a causa di criteri di inclusione diversificati (molto ampi all’inizio dell’epidemia) e col dubbio che diversi decesi avvenuti a domicilio non siano stati ricompresi per mancata esecuzione del tampone. La stessa ISTAT ci dice che nei Comuni delle zone epicentro dell’epidemia il numero di morti rispetto allo stesso periodo dello scorso anno sono aumentate, sebbene i dati non siano in questo momento sufficienti per tirare delle conclusioni.
Prisco Piscitelli – Cattedra UNESCO in Educazione alla Salute e allo Sviluppo sostenibile
Medico epidemiologo e vicepresidente Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), Ricercatore ISBEM (Bruxelles) e Specialista in Igiene e Medicina Preventiva (ASL Lecce).