L’operatore non vaccinato contagiato da Covid-19 espone il datore di lavoro o il dirigente all’azione di rivalsa da parte di INAIL
di Prisco Piscitelli e Giovanni De Filippis
Il rischio biologico, compreso quello che stiamo sperimentando con la pandemia COVID-19, costituisce una delle categorie di rischio a cui possono essere esposti i lavoratori e che fanno scattare obblighi prevenzionali e di tutela a carico dei datori di lavoro pubblici e privati a partire da quelli dei servizi sanitari e socio-sanitari.
L’obbligo principale è quello di valutare il rischio a cui sono esposti i dipendenti, formare ed informare i lavoratori in merito alle misure di sicurezza da adottare, nominare il Medico Competente (in genere uno specialista in Medicina del Lavoro) per la Sorveglianza Sanitaria degli esposti ed organizzare il Servizio Prevenzione e Protezione Aziendale di complessità crescente in relazione alle dimensioni dell’azienda.
In esito alla valutazione del rischio i datori di lavoro devono programmare l’adozione delle misure prevenzionali che vanno dal semplice uso di dispositivi di protezione individuale fino alla predisposizione di misure di contenimento strutturali.
In materia di rischio biologico l’articolo 279 comma 2 del DLGS 81/2008 prevede che il datore di lavoro, su indicazione del Medico Competente, adotti misure protettive particolari per i lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:
- a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico da somministrare a cura del medico competente;
- b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42 (in pratica trovandogli, ove possibile, altro da fare: es. smart working, la DAD, back office).
Nel caso del COVID-19 tutta la popolazione generale è da considerarsi come esposta a rischio di contagio, per cui i cittadini stanno sperimentando in questi mesi severe restrizioni e prescrizione d’uso di mascherine filtranti. Tuttavia, mentre ai cittadini si può richiedere o anche imporre di non esporsi al rischio di contagio, ciò non è possibile in molti comparti lavorativi, in particolare in sanità.
Per COVID-19 i principali moltiplicatori del rischio sono le distanze e la frequenza di contatto con un numero potenzialmente illimitato di soggetti, tra i quali possono esservi persone infette dal SARS-COV-2, per cui tutti i lavoratori operanti in servizi aperti al pubblico (incluse le forze dell’ordine, i magistrati, gli addetti al commercio e ristorazione, etc) sono da considerarsi esposti a un rischio generico aggravato di contrarre l’infezione e – fortunatamente in un numero limitato di casi – anche di sviluppare la malattia. Un ulteriore presupposto da cui si è partiti per individuare categorie lavorative da sottoporre prioritariamente a vaccinazione è stato quello di garantire la continuità di servizi pubblici essenziali. Il contagio, come noto, non comporta necessariamente la malattia, potendosi determinare una condizione di “portatore sano” del virus (soggetto asintomatico già al tampone antigenico e ancor più a quello molecolare, quest’ultimo considerato la più affidabile metodica diagnostica) che pertanto è inconsapevole di essere in grado di trasmettere il contagio.
Gli operatori sanitari invece sono esposti a un rischio generico aggravato, in quanto operanti in un ambiente di lavoro frequentato da soggetti potenzialmente infetti (sintomatici o asintomatici) da batteri, virus, miceti o parassiti. Questo rischio generico aggravato si trasforma un rischio specifico in relazione alle manovre diagnostiche, assistenziali e terapeutiche proprie delle mansioni a cui i lavoratori sono adibiti o per tipologia di pazienti con cui hanno contatto (es. reparti di malattie infettive, unità USCA deputate all’assistenza territoriale per pazienti COVID, pronto soccorso e 118).
Questi lavoratori assumono su di sé una doppia responsabilità: verso le persone/utenti/pazienti con le quali entrano in contatto e verso i propri familiari, a volte uomini e donne, per età e condizioni generali, considerabili soggetti a maggior rischio.
Da tali considerazioni bisogna partire per chiedersi se il vaccino è o può essere obbligatorio in particolare per questa fascia di lavoratori più esposti, si tratta di un percorso insidioso, già affrontato in medicina del lavoro per altre malattie infettive, che, almeno ai nostri tempi, non sono caratterizzate da una letalità e morbilità paragonabile a quelle di SARS-COV2.
Si avverte la difficoltà oggettiva del legislatore di rendere obbligatorio il vaccino anti COVD 19, eppure molti condizionamenti legislativi esistono già, sia nazionali che regionali: l’obbligo di palesare il proprio stato di salute al rientro da località e paesi considerati a rischio, e – come avviene nelle ASL – di sottoporsi a tampone al rientro da malattia o da ferie, previa valutazione del medico competente. Senza considerare le tante altre disposizioni (quarantena, isolamento, limite alla circolazione delle persone e alla libertà di impresa) che di fatto limitano, in nome dell’interesse collettivo alla salute, i diritti dei singoli incluse le libertà fondamentali durante i periodi di “lockdown”.
Mentre nella maggioranza dei comparti lavorativi, l’omissione della vaccinazione da parte del lavoratore comporta principalmente un aumento del rischio personale di ammalarsi, in sanità si aggiunge il rischio di contagiare i pazienti assistiti, che peraltro possono essere soggetti fragili (e pertanto a rischio di gravi complicanze derivanti dalla malattia infettiva) o immunocompromessi e quindi più facilmente infettabili. In quest’ultima fattispecie rientrano i lavoratori delle case di riposo o residenze sanitarie assistite (RSA), che tanto hanno contribuito ad innalzare la letalità del COVID-19.
E’ quindi necessario specificare che, nel quadro della campagna vaccinale di massa, che ha dato priorità ai lavoratori del comparto sanitario e socio-sanitario, la probabilità di contrarre il COVID è più elevata in alcuni profili professionali piuttosto che in altri: personale che opera in RSA, nel 118, nei servizi di anestesia e rianimazione, nelle pneumologie e medicine, nei pronto soccorso, in radiologia o nei servizi di malattia infettive ospedalieri, nei servizi territoriali, come le USCA o in alcuni servizi dei Dipartimenti di Prevenzione, che effettuano attività di monitoraggio e controllo su casi e contatti o in attività produttive.
Il vaccino è la misura di prevenzione dal COVID 19 per eccellenza e fatte salve le controindicazioni (così come indicate nelle Linee guida dell’ISS), è una pratica sicura, come confermano, oltre alla sperimentazione effettuata, i primi dati su milioni di vaccini già inoculati nel mondo.
Cosa fare oltre naturalmente a sensibilizzare e informare? Il datore di lavoro ha il dovere di tutelare la salute dei propri lavoratori. Di concerto con il medico competente e con il coinvolgimento del RSPP e del rappresentante dei lavoratori potrà individuare nel vaccino, l’arma necessaria per proteggere dalla diffusione di SARS COV2 nei luoghi di lavoro di cui è responsabile ( sia esso un ospedale, una RSA o altro contesto operativo individuato dalla valutazione del rischio, in base a quanto previsto dagli organismi scientifici internazionali e nazionali.
Spetta al medico competente – che programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati – inserire la vaccinazione in un protocollo sanitario integrativo aziendale, così come già fatto in alcune situazioni (strutture sanitarie pubbliche e accreditate) con la programmazione dei tamponi antigenici/molecolari. Una volta che il medico competente ha inserito la vaccinazione anti-COVID nel protocollo sanitario, il lavoratore ha l’obbligo conseguente di sottoporsi ai vaccini previsti. A meno che il lavoratore non rientri nelle contro-indicazioni previste dall’ISS o documenti uno stato di immunità acquisita, tenendo presente che per il COVID-19 la comparsa di anticorpi immunizzanti non è presente in tutti i casi con titoli protettivi ed ha anche durata limitata, in quanto l’immunità cellulo-mediata sembra avere un ruolo rilevante.
Cosa avviene nel caso in cui il lavoratore non faccia il vaccino? È prevista l’inidoneità temporanea alla mansione con obbligo in capo al datore di lavoro di individuare altro incarico per il lavoratore, ove possibile, una mansione che non lo esponga al rischio. E’ previsto il ricorso da parte del lavoratore all’organo di vigilanza ASL (servizio SPeSAL), che potrà confermare, revocare o modificare il giudizio. Nella dimostrata impossibilità di adibire il lavoratore che ha rifiutato la vaccinazione ad altre mansioni non a rischio per se e per terzi esiste la possibilità estrema del licenziamento.
E se lo stesso lavoratore risulti inquadrabile come soggetto fragile? Se non ci sono controindicazioni specifiche, la vaccinazione è a maggior ragione auspicabile.
Come si comporta l’INAIL (l’istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro) nel caso di una infezione da COVID-19 contratta da un lavoratore? L’INAIL considera le patologie da agenti biologici come infortuni sul lavoro e non come malattia professionale (ad esclusione della tubercolosi); ciò in quanto presuppone che la causa del contagio è stata una causa “violenta” ovvero concentrata nel tempo (massimo un turno di lavoro), avvenuta in occasione di lavoro o anche in itinere (ad es. contagio su mezzi di trasporto affollati nel tragitto tra l’abitazione e il luogo di lavoro).
E come si regolerà l’INAIL per una domanda di infortunio sul lavoro per COVID, di fronte ad un lavoratore che ha rifiutato di vaccinarsi, senza che tale rifiuto sia legato a motivazioni sanitarie certificate? In presenza dell’indicazione da parte del medico competente ad eseguire la vaccinazione e alla messa a disposizione del vaccino da parte del datore di lavoro – il rifiuto del lavoratore di vaccinarsi può essere motivo ostativo al riconoscimento di una eventuale malattia da COVID come infortunio sul lavoro? Al pari di ogni altro tipo di infortunio, anche quello da COVID 19, ove sia stato determinato da mancata adozione di misure prevenzionali da parte del datore di lavoro o dirigente dell’azienda non priva il lavoratore dall’indennizzo, ma espone all’azione di rivalsa da parte di INAIL il datore di lavoro o il dirigente che contravvenendo alle indicazioni del Medico Competente, non abbiano allontanato il lavoratore non vaccinato esponendolo a rischio di contagio.
Come si vede, al pari di molti altri casi, esistono già quadri normativi, assicurativi ed operativi ben definiti che consentono di fatto di attuare nel concreto l’obbligatorietà della vaccinazione anti-COVID per i lavoratori del comparto sanità o per lo meno per quelli più esposti o che potrebbero rappresentare una fonte di moltiplicazione dei contagi in caso d’infezione.