“L’Italia e l’Europa debbono recuperare sovranità tecnologica”
Gaetano Manfredi, 56 anni, è ingegnere e docente universitario di Tecnica delle Costruzioni. La sua ricerca si è volta principalmente all’ingegneria sismica. Dopo essere stato eletto nel 2014 Rettore dell’Università Federico II di Napoli, è stato presidente della CRUI, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Dal 10 gennaio di quest’anno è Ministro dell’Università e della Ricerca, un incarico che sta svolgendo da tecnico “anomalo”, anomalo perché appassionato come un militante politico dei temi di sua competenza, una passione che lo porta a stigmatizzare quel senso comune, diffuso in Italia in tutti gli strati sociali e in modo politicamente trasversale, secondo cui “la cultura sarebbe un lusso, quasi un bene non-essenziale”. Da tutti è stato riconosciuto il suo impegno, riuscito, volto a consentire agli atenei, nonostante l’emergenza pandemica, la prosecuzione della didattica in presenza. Lo sviluppo della Ricerca in Italia è l’altra priorità della sua “missione” in seno all’esecutivo Conte II.
Ministro, qual è lo stato dell’arte della Ricerca in Italia?
Dal punto di vista della qualità il livello della ricerca italiana è molto alto. Tutti gli indicatori, se rapportati a quelli dei paesi nostri principali competitor, ci dicono che abbiamo anche una buona produttività. Il problema, però, è che da un punto di vista quantitativo siamo molto deboli: il sistema paese dispone di pochi ricercatori e scarsi investimenti. Un paradosso, anche perché qualità e produttività ci raccontano di un notevole potenziale che non è sufficientemente supportato da infrastrutture e risorse economiche, che sarebbero essenziali per accrescere la nostra competitività.
Perché il nostro paese spende così poco rispetto agli altri paesi occidentali in Ricerca?
Detto sinteticamente, i motivi sono due: il primo direi che è legato a una mentalità diffusa in Italia, sia a livello di classe dirigente che di opinione pubblica, in virtù della quale si fatica a riconoscere nell’alta formazione e nella ricerca un asset nazionale strategico: questo determina la scarsezza dell’investimento pubblico. Ma un ulteriore problema è dato dall’esiguità, sempre in raffronto con i nostri principali competitor, dell’investimento privato. In questo caso, la questione trae origine dal tipo di tessuto economico e imprenditoriale che caratterizza il nostro paese. Il nostro sistema industriale è dotato di pochi grandi player, che sono poi quelli che normalmente dispongono delle risorse necessarie per investire in ricerca e innovazione di prodotto e che perseguono un elevato valore aggiunto tecnologico.
Quali sono i settori caratterizzati da maggiore forza e quali invece quelli in cui siamo in affanno?
Innanzitutto va sottolineato che noi italiani abbiamo un’ottima ricerca di base, con un alto numero di citazioni: i lavori dei nostri ricercatori sono ai primi posti a livello internazionale da questo punto di vista. Dunque i nostri fondamentali sono solidi. Tra i settori in cui spicchiamo vanno ricordati senz’altro la biomedicina e la fisica, ma ce ne sono anche altri. In generale, purtroppo, noi siamo molto deboli sul trasferimento dei risultati del lavoro di ricerca in prodotto. In poche parole, abbiamo pochi brevetti e questo è un gap gravissimo, che testimonia come in Italia non sappiamo proteggere adeguatamente la proprietà intellettuale. Un tema cruciale nel mondo globalizzato.
Come ha inteso potenziare il sistema della ricerca italiana?
Già nel Decreto Rilancio abbiamo fatto importanti investimenti, così come nel Milleproroghe. Grazie ad essi potremo assumere 6.000 nuovi ricercatori e molti ne faremo tornare in Italia: parliamo di ben 700 milioni di euro in più rispetto al passato. Ma altre risorse sono previste già nella prossima Legge di Bilancio: per esempio verrà arricchito il Fondo Ordinario per gli Enti e gli istituti di ricerca (FOE). Nel Piano Nazionale per la Ricerca (PNR) sono previsti, invece, numerosi progetti volti a finanziare nuovi laboratori o a rafforzare quelli esistenti. Da anni non si interveniva sulle infrastrutture della ricerca, che sono decisive. Anche attraverso il Recovery Fund prevediamo di arricchire il nostro portafoglio, che non sarà focalizzato soltanto sulla digitalizzazione.
Come crede che si possano creare connessioni sempre più strette tra il mondo dell’Università e della Ricerca e quello delle imprese?
A questo proposito, e in particolare con l’obiettivo di facilitare il partenariato tra aziende e università, abbiamo istituito lo strumento dei “dottorati industriali”, che è già in fase molto avanzata. Soprattutto vanno creati veri e propri “ecosistemi” integrati pubblico/privato, interconnessi, sul modello positivo rappresentato dal Polo di San Giovanni a Teduccio a Napoli. I settori su cui puntare sono quelli strategici: dall’Intelligenza Artificiale al MedTech, insomma quelli ad alto elevato contenuto tecnologico. Poi bisogna sburocratizzare e semplificare le regole: la Ricerca richiede velocità.
Quando si parla di ricerca si pensa poco a quella legata alle scienze umane… è giusto?
Secondo me è un errore. Scienze umane e scienze tecnologiche non vanno tenute separate. C’è anzi necessità di un’interazione forte tra di esse, perché siamo in una fase storica decisiva, con un cambio di paradigma profondo dal punto di vista scientifico e sociale. Sarebbe pertanto importante uno sforzo da parte della scienze umane, finalizzato a valutare l’impatto delle nuove tecnologie in termini sociali e individuali. Proprio per questo motivo in tutti i programmi che ho messo in campo ho dato ampio spazio alle scienze umane, che debbono evolversi anch’esse e cominciare ad interrogarsi sul futuro. Soprattutto la filosofia ha per troppo tempo indagato sé stessa e il suo passato, in particolare in Italia: c’è bisogno di un approccio diverso, direi fenomenologico. Inoltre non è secondario un ulteriore tema…
Quale?
L’impatto che le nuove tecnologie stesse potranno avere sulla ricerca umanistica, dalla storia alla filologia all’archeologia, che potranno munirsi di strumenti nuovi e decisivi negli studi futuri.
Ministro, lei ha spesso dichiarato nelle sue interviste che senza sovranità tecnologica non può esistere sovranità politica. Cosa intende di preciso?
E’ una questione che mi sta particolarmente a cuore. Nell’era globale poter disporre di una tecnologia e della capacità produttiva per realizzarla è fondamentale per garantire la propria sovranità. Pensiamo, per fare un esempio banale, a una cosa tecnologicamente semplice come le mascherine in tempo di pandemia. Non avere la capacità di produrne a sufficienza ci ha reso dipendenti dal resto del mondo nella prima fase dell’epidemia. Un discorso che non vale solo per l’Italia, ma per l’intera Europa, che per fare un altro esempio non produce la maggior parte dei farmaci che normalmente utilizziamo.
Cosa bisogna fare?
I settori in cui riprogrammarsi e investire, per esercitare a pieno la nostra sovranità tecnologica e produttiva sono molti: tra i più importanti citerei l’Intelligenza Artificiale, l’energia, le biotecnologie farmaceutiche (i vaccini) e le tecnologie quantistiche. Si tratta di settori che danno indipendenza e forza negoziale sui tavoli internazionali. Come membro fondatore dell’Unione Europea e seconda manifattura del Continente, anche l’Italia dovrà fare la sua parte.