Con il suo caratteristico approccio multidisciplinare, Annamaria Colao, titolare della Cattedra Unesco in Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile presso l’Università Federico II di Napoli, fa il punto della situazione in Campania e in Italia sull’emergenza Coronavirus, proponendo la sua ricetta per la riapertura.
Professoressa Colao a che punto siamo con l’epidemia? Il peggio è passato?
Al momento i dati dimostrano che il tasso di contagio è passato da un valore superiore a 2 dell’inizio di marzo ad un valore inferiore ad 1. Ciò significa che all’inizio dell’epidemia, ogni malato poteva contagiare più di due persone mentre adesso ne contagia meno di una. Una importante riduzione, non siamo tuttavia in una fase di rischio contagio zero.
Si sta parlando di fine del lock down, ma in Campania sono in vigore misure più dure rispetto ad altre regioni maggiormente colpite. È necessario continuare così o bisogna cominciare a riaprire?
La Campania, e in generale tutto il Paese, ha risposto con grande maturità alle misure di contenimento. Misure penalizzanti per tutti dal punto di vista psicologico ed economico. Continuare con il lock down, senza alcuna modifica rispetto alla prima fase, significherebbe che c’è stata un’analisi della situazione solo parziale da parte della politica. In casi come questi, a supporto della classe politica, può venire la scienza. In particolare, osservando il rapporto tra numero di individui positivi al SARS-Cov-19, pazienti gravi che necessitano di ricovero in terapia intensiva e pazienti guariti, è evidente che si possa e si debba riaprire, con diversi gradi di apertura.
Ci vuole coraggio…
Il protrarsi del lock down “sic et simpliciter”, è sbagliato. Dopo sei settimane di chiusura completa di quasi tutte le attività, sarebbe auspicabile ricevere da chi ci governa un maggior numero di proposte e soluzioni. Non si può mettere il cittadino davanti al dilemma di una scelta tra rischio di contrarre il virus o perdere il lavoro. È qui che entrano in gioco le responsabilità della politica.
In che modo sarebbe opportuno organizzare una riapertura?
La mia visione, rigorosamente come medico e quindi senza alcuna competenza in materia economica, è di prolungare le misure di isolamento per i soggetti a maggior rischio di contrarre il CoViD in modo più severo: gli ultrasettantacinquenni, i pazienti con comorbidità severe, come diabete, obesità, malattie polmonari e cardiache croniche, o tumori, a maggior ragione se uomini, visto il noto rapporto sfavorevole per il sesso maschile. Si potrebbe quindi riaprire favorendo un’apertura per fasce di popolazione, a cominciare dai più giovani, che hanno un rischio ridotto di sviluppare la malattia in modo severo. E’ evidente che dobbiamo anche essere certi della negatività della presenza del virus, ciò comporta in tampone a chi riprende a lavorare. Allo stesso modo per i soggetti che si sono ammalati e sono guariti, dovremmo essere certi della presenza di anticorpi contro il SARS-Cov-19, così saremmo in grado di proteggere la popolazione dal virus senza penalizzare il benessere collettivo. Ovviamente, il distanziamento sociale, le mascherine e l’igiene delle mani e dei locali, andranno mantenuti fino all’arrivo del vaccino. Solo il vaccino, potrà darci quella tranquillità che il virus non sarà più in grado di circolare.
Quanto tempo dura l’immunizzazione dopo aver contratto il virus?
Non esistono ancora evidenze scientifiche certe al momento. Tuttavia, è possibile affermare con una discreta dose di sicurezza che con gli anticorpi ancora in circolo non è facile riammalarsi, perché sappiamo che gli anticorpi durano un certo periodo di tempo, ma quanto sia esteso ci è ancora ignoto.
Quindi?
La distinzione fondamentale da fare a questo punto è quella tra gli individui positivi, che anche in assenza di sintomi possono contagiare, e chi non è più positivo, ovvero non è più in grado di trasmettere la malattia. Meglio se ha anche sviluppato gli anticorpi tali da essere immune per un periodo.
È favorevole ai metodi di tracciamento attraverso le nuove tecnologie?
Capisco chi in questo momento li ritiene utili, perché possono tracciare immediatamente i casi di positività al virus rendendo disponibili una serie di dati e contatti, ma si tratta di strumenti il cui impiego, nella realizzazione pratica, è controverso e non esente da problemi di molteplice natura.
Cosa pensa dell’anomalia lombarda? Lì è attivo un ceppo del virus più letale o è colpa dell’inquinamento?
Ho grande rispetto per tutti i miei colleghi medici, e per tutto il comparto della sanità lombarda che nell’epicentro della pandemia non si sono tirati indietro, spesso ammalandosi e pagando un prezzo molto alto. Trovo che l’attacco nei confronti della sanità lombarda sia ingiusto. Se esistono responsabilità di qualsiasi tipo sarà la magistratura a rilevarlo, ogni congettura a questo punto sarebbe priva di fondamento e si presterebbe al rischio di sciacallaggio. Detto questo, che in alcune zone della Lombardia, così come del Piemonte e dell’Emilia-Romagna, ci sia una virulenza non riscontrata altrove è evidente. Rilevarlo, sotto il profilo medico ed epidemiologico, non ha a che fare con la risposta della sanità. È un argomento che va approfondito e la Società Italiana di Medicina Ambientale, presieduta dal professor Alessandro Miani, lo ha già affrontato in un position paper nel quale è stato registrato come il Sars-Cov-2 sia maggiormente presente in zone con grandi quantità di particolato PM2,5 e PM10, tipico dei distretti ad alta densità industriale. Ciò potrebbe aver determinato un’accelerazione dell’epidemia nelle regioni del Nord. Si tratta di un’ipotesi valida e da approfondire. Un’altra ipotesi è che, essendo stato il primo focolaio, la Lombardia sia stata colpita con maggior forza dal virus. L’unica certezza, al momento, è che al Sud sono stati registrati meno contagi e in proporzione a questi anche meno morti.
Perché quello del Veneto si è dimostrato un modello vincente?
In Veneto è stato scelto un approccio molto diverso da quello adottato dalle altre regioni. Mentre altrove è stato scelto di fare i tamponi solo a chi presentava una compresenza di sintomi conclamati, in Veneto da subito sono stati eseguiti su larghe fasce di cittadinanza, a prescindere dai sintomi, permettendo così una prima e fondamentale mappatura del contagio.
Come in Corea del Sud…
Esatto. Questo ha permesso di isolare gli asintomatici e ridurre moltissimo l’esposizione alle persone malate che svilupperanno i sintomi solo successivamente. Ad oggi la strategia dei tamponi in modo da mappare popolazioni più estese circoscrivendo i territori, si è dimostrata la migliore.
Il contrario di quanto è stato fatto in Campania.
La Campania è tra le regioni che hanno effettuato meno tamponi. Inizialmente, forse il dato relativo ad un aumento del numero dei soggetti positivi che fisiologicamente aumenta con l’aumentare dei tamponi, ha spaventato. D’altra parte, ho sempre riscontrato come il presentare i dati giornalieri sul numero dei nuovi contagi senza rapportarlo in percentuale al numero di tamponi effettuati, non abbia rappresentato un dato clinicamente significativo, anzi ha dato l’impressione che il numero dei soggetti che avevano contratto il virus fosse sempre lo stesso, nonostante l’impegno economico e sanitario. Invece, contestualizzare questi dati avrebbe mostrato che incrementare i tamponi significava in realtà aumentare il controllo sul contagio. In verità, poiché il numero dei tamponi che oggi si effettuano su tutto il territorio nazionale è molto superiore rispetto all’inizio dell’epidemia, il numero dei soggetti contagiati attualmente è molto più basso.
Tornando alla Lombardia, sembra che anche la massiccia ospedalizzazione abbia giocato un ruolo nella concentrazione dei contagi nella regione.
L’immunologo Guido Silvestri sul suo sito aperto alla verifica di tutti coloro che sono interessati, ha recentemente riportato uno studio americano che ha rilevato come i focolai di contagio siano concentrati in prevalenza nelle Residenze Sanitarie Assistenziali, negli ospedali e nell’ambito familiare/condominiale. Ciò significa che una malattia epidemica è più facile che si propaghi in contesti chiusi. In Lombardia le strutture sanitarie sono moderni monoblocchi. Ciò ha comportato, prima della scoperta del paziente indice, il più veloce propagarsi dell’infezione, e successivamente, la difficoltà di allestire percorsi separati tra i pazienti Covid e tutti gli altri. Il personale si è trovato a dover allestire strutture totalmente nuove mentre l’epidemia era già in atto. Proprio per questo l’ideale sarebbe la domiciliazione delle cure, quando possibile, e in ogni caso evitare di centralizzare i casi.
La Campania sembra aver retto bene. Merito del personale sanitario?
In Campania i primi casi sono stati immediatamente condotti al Cotugno, un ospedale specializzato nelle malattie infettive, dove erano già presenti percorsi specifici e con personale altamente qualificato per affrontare una situazione pandemica. Sembra una banalità, ma anche sapere come si indossano correttamente i famosi dispositivi di protezione individuale fa la differenza. Non a caso, nessun sanitario si è infettato durante il duro lavoro effettuato presso l’Ospedale Cotugno (l’unico infermiere risultato positivo, probabilmente si è contagiato fuori dall’ospedale).
A proposito di eccellenze campane, a che punto è la sperimentazione del professore Paolo Ascierto che al Pascale di Napoli ha applicato il protocollo con il farmaco Tocilizumab?
Ad aprile saranno diffusi i primi dati dello studio che vede coinvolti, oltre ad Ascierto, il direttore del dipartimento di ricerca e sviluppo del Pascale, Franco Perrone, in qualità di coordinatore, insieme a Enzo Montesarchio del Monaldi e al resto del team. Il professor Ascierto ha avuto un grande merito: per i primi due casi di coronavirus ricoverati al Cotugno che avevano contratto la grave forma di polmonite interstiziale, ha contattato i medici cinesi per confrontarsi sulla strategia di uso degli anticorpi monoclonali anti interleuchina-6. La sua esperienza di oncologo esperto di immunoterapia, gli ha permesso di capire che quella terapia usata per l’artrite reumatoide poteva rivelarsi utile anche davanti a una tempesta citochinica – infiammazione acuta violenta – come quella che si verifica nei pazienti Covid. Questa intuizione, unita al coraggio di metterla in pratica, ha permesso di cambiare completamente il decorso della malattia in molti pazienti.
Non sono poche le polemiche che hanno raggiunto Ascierto, dopo l’annuncio dell’efficacia del farmaco…
È possibile che il protocollo fosse in fase di applicazione anche a Bergamo, proprio perché veniva da una idea dei colleghi di Whuan, che avevano lavorato a 20 casi usando gli anticorpi monoclonali. Paolo Ascierto, infatti, non ha mai detto che si trattava di una sua idea, ma che, sfruttando una collaborazione che il Pascale già aveva con la Cina, aveva avuto conferma che la sua intuizione era corretta e si poteva iniziare la sperimentazione (in gergo scientifico si chiama “proof of concept”). Se i colleghi di Bergamo avessero anche loro comunicato i dati in loro possesso, si sarebbe potuto lavorare insieme. Un momento di grave difficoltà come questo richiede strategie diverse nel disegno e nelle procedure di sperimentazione farmacologica.
Prima dell’epidemia abbiamo assistito a una escalation di aggressioni ai medici, adesso sembra esserci una nuova percezione della figura del medico da parte del cittadino.
I medici non sono eroi. Noi facciamo il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto, nonostante tutte le difficoltà causate dal sistematico smantellamento del Sistema Sanitario. Abbiamo tenuto in piedi un sistema universale di assistenza privi di mezzi, e di personale. Adesso, davanti alla necessità cagionata dall’epidemia è stata riscoperta l’importanza di tutti gli operatori della sanità, ed è stata capita la necessità di incrementare il numero dei medici, degli infermieri e di tanti altri professionisti. Se l’epidemia ha portato alla luce la grande capacità del nostro Sistema Sanitario, dei suoi medici, infermieri, farmacisti, e tutte le professionalità della salute, allora non tutto è stato negativo e mi auguro che l’abbiano capita i politici, oltre che i cittadini. Evitare che ci si possa ritrovare nella stessa situazione, sarà un obbligo nei confronti di tutti quei cittadini che hanno perso la propria vita per questa epidemia.
Alessandro Sansoni e Maria Neve Iervolino