Giulio Tarro, 82 anni, è il più noto e il più controverso virologo italiano. Primario dal 1973 al 2006 presso l’Ospedale Cotugno di Napoli, è stato in prima linea quando la città fu costretta a fronteggiare l’epidemia di colera. In queste settimane è stato protagonista di vibranti polemiche che lo hanno visto contrapporsi agli scienziati più à la page nell’Italia al tempo del Coronavirus.
Professore, oramai il mondo scientifico, e non solo, ha ampiamente dibattuto sulla genesi e sulle caratteristiche di Covid-19, spesso arrivando a conclusioni contraddittorie. Lei che idea si è fatto di questo nuovo virus?
Il Covid-19 sta facendo il suo decorso. È un virus che è meno aggressivo su giovani e bambini. I casi di polmoniti interstiziali e trombo-embolici polmonari che abbiamo potuto osservare si riferiscono infatti ai soggetti anziani e con patologie pregresse. Ritengo che non ci sia nessuna evidenza scientifica per cui si possa affermare che il virus sia stato creato in laboratorio. Numerosi ricercatori sono andati a predire le sequenze genetiche del Covid-19, evidenziando una percentuale di differenza dal virus del pipistrello, ma ciò probabilmente è dovuto al fatto che ci sono stati vari passaggi con un animale intermedio come il pangolino, non perché sia stato modificato artificialmente. Tra l’altro è noto che in genere un virus può mutare in appena cinque giorni. Sulla sostanziale differenza del virus presente qui da noi con quello di Wuhan – l’oramai famoso coronavirus dei pipistrelli – c’è uno studio riportato anche nella dichiarazione del dottor D’Anna (presidente dell’Ordine dei Biologi n. d. r.), che evidenzia come ben cinque nucleotidi siano differenti. Un po’ troppi per i pochi mesi intercorsi tra la segnalazione dei primi casi in Cina e oggi.
Il Covid 19 potrebbe sparire completamente come la prima SARS, ricomparire come la MERS, ma in maniera localizzata o cosa più probabile diventare stagionale come l’aviaria.
Come giudica la gestione dell’emergenza sanitaria da parte del governo italiano?
In Italia il virus circolava probabilmente già da moltissimo tempo. In Lombardia è scoppiata una “bomba atomica” e in un lasso di tempo troppo breve a fronte della capacità del Sistema Sanitario. L’Italia ha chiuso i voli diretti con la Cina, senza controllare gli arrivi indiretti attraverso gli scali e quindi è stato possibile aggirare il divieto. A tutto questo si aggiunge lo sfascio del nostro Sistema Sanitario Nazionale: dal 1997 al 2015 sono stati ridotti del 51% i posti letto delle terapie intensive. A gennaio quando si è saputo dell’epidemia in Cina, l’Italia non ha fatto nulla. La Francia – che non aveva nel tempo ridotto le terapie intensive – a inizio anno si è preparata e le ha raddoppiate. Noi no, siamo arrivati tardi.
La terapia con plasmaferesi intrapresa in diversi laboratori italiani sembra stia dando i primi risultati. Quali sono i benefici di questa terapia?
Ha senso concentrarsi su questa terapia perché abbiamo già a nostra disposizione gli anticorpi dei guariti che possiamo ricavare con la plasmaferesi, una tecnica di separazione del sangue che viene usata per diversi scopi. La cura con il plasma dei pazienti guariti da Covid-19 si sta sperimentando in tutto il mondo. In Italia si stanno ottenendo dei risultati positivi a Pavia, Modena e Salerno. Inoltre, voglio ricordare che non ci troviamo di fronte a una terapia sperimentale da dover studiare o da concedere in via compassionevole. È una pratica conosciuta da secoli, utilizzata anche da Pasteur nell’Ottocento: si sono sempre prelevate le gammaglobuline dai guariti per curare i malati.
L’Istat nel rapporto sull’impatto del Covid-19 ha fotografato un’Italia spaccata in due: in undici province del Nord si è verificato un incremento dei decessi a tre cifre rispetto agli anni passati, al contrario, il Centro e soprattutto il Sud hanno registrato addirittura meno morti. A cosa è riconducibile questa differenza?
Il fatto che i focolai di coronavirus italiano si trovino in Lombardia e Veneto potrebbe dipendere da fattori ecologici, come alcuni tipi di concime industriale. Questi potrebbero aver alterato l’ecosistema vegetale e, quindi, animale nel quale uno dei tanti coronavirus normalmente in circolazione può aver avuto una inaspettata evoluzione. Sarebbe opportuno analizzare se in passato particolari forme di faringiti o sindromi influenzali siano state registrate in quei territori. È sicuramente interessante l’analisi svolta dall’esercito americano che indica l’aumento del rischio di contrarre il coronavirus del 36% nei soggetti sottoposti al vaccino antinfluenzale. Mi risulta che ci sia stata la richiesta di ben 185.000 dosi di antinfluenzale a Bergamo. In concomitanza c’è stata un’endemia da meningococco per cui sono state richieste 34.000 dosi. Tutti questi eventi sono sicuramente importanti. Quindi ci sono delle associazioni da studiare, indipendentemente dal rapporto cause ed effetto.
Il Veneto è stato indicato come modello vincente della lotta al Covid-19. Lei è d’accordo?
Le rispondo con una considerazione che è anche una sintesi. È come se si fosse verificato un terremoto della stessa magnitudine e della stessa intensità in diverse parti del mondo, solo che in Lombardia, le conseguenze sono state più devastanti che altrove. In una circostanza del genere anziché dare la colpa al sisma avremmo cercato di capire perché le nostre strutture hanno ceduto più facilmente che altrove. Quindi quello che possiamo fare noi è individuare tutta una serie di fattori, ambientali e sanitari, che direttamente o indirettamente hanno facilitato le conseguenze devastanti che riscontriamo in Lombardia. Guardiamo il Veneto ad esempio, dove la situazione è completamente diversa, eppure geograficamente ci collochiamo nella medesima zona. Ad esempio a Vo’, c’è stata una gestione completamente antitetica a quella di Nembro e Alzano: la cittadina è stata sigillata e si è proceduto immediatamente con lo screening di tutta la popolazione, in modo tale da avere al più presto un quadro esatto della diffusione dell’epidemia. La tempestività di azione, unita a un sistema sanitario regionale strutturato differentemente e il ricorso massiccio allo screening (il doppio se rapportati alla popolazione) hanno di fatto contenuto l’epidemia e infatti il numero di decessi è nettamente inferiore.
È giusto dare avvio a una riapertura uniforme in tutta Italia?
Portiamo avanti un eccessivo rigore. Hanno già riaperto tutti, non capisco perché noi in Italia non lo facciamo. In Danimarca sono ritornati a scuola, ognuno fa la sua vita, chiaramente con le nuove regole imposte dalla situazione. Il virus si può controllare con le normali misure igieniche e con la diffusione degli anticorpi: il cambio di clima indotto dalla stagione estiva farà il resto, abbattendo la dimensione del contagio. Bisogna riaprire, certo con intelligenza e buon senso, ma non possiamo morire di fame o sviluppare malattie mentali per questo motivo. Il contagio non si ferma con il lookdown, bisogna fare come si faceva con la peste: con l’isolamento del paziente e la quarantena, sono questi i denominatori per bloccare le malattie infettive. Oltre il rispetto delle norme igieniche, portare guanti e mascherina.
Che effetti possono avere le temperature estive sulla circolazione del virus?
Per replicarsi il virus ha bisogno di temperature basse e umide, per cui le alte temperature estive non sono un suo “alleato”. Col caldo tutto dovrebbe tornare alla normalità: credo che in estate, quasi sicuramente, saremo abbastanza immunizzati e non ci sarà motivo di restare ancora agli arresti domiciliari forzati. Non a caso le latitudini africane, come dimostrato da studi scientifici recenti, non consentono una diffusione massiccia ed estesa del SarsCov2: ci sono solo piccole endemie qua e là.
È possibile che si verifichi una seconda ondata di Coronavirus in autunno?
Il SarsCov 2 si comporta come i virus influenzali che dapprima si espandono con l’epidemia, poi la popolazione sviluppa gli anticorpi e si immunizza, quindi il virus non può più circolare. Nella stagione successiva, se dovesse ripresentarsi, il virus potrebbe attaccare solo quei pochi che non hanno ancora sviluppato gli anticorpi.
Professore, lei era primario di virologia all’ospedale Cotugno di Napoli durante l’epidemia di Colera del ‘73. Anche oggi il Cotugno si conferma il miglior nosocomio in Italia per la sua capacità di risposta al Coronavirus. Qual è la chiave per gestire l’emergenza pandemica?
Dobbiamo tener conto degli episodi del passato che Lei ha citato. Per l’aviaria ci fu una buona dose di allarmismo, ma poi si è visto il suo impatto effettivo; stesso discorso per la suina che è stata addirittura definita “pandemia”. Per quanto riguarda il coronavirus dobbiamo pensare che al momento i tempi per un vaccino sembrano lunghissimi. Io sono allievo di Sabin, e continuo a studiare nel suo solco. Pensiamo solo all’Aids, sono decenni che si studia e non c’è ancora un vaccino. Esiste anche la sieroterapia: le persone che sono guarite hanno sviluppato anticorpi, che possono essere somministrati ai soggetti gravi attraverso l’utilizzo del siero. Il costo di queste cure è basso. Abbiamo tanti approcci possibili e percorribili, con serietà, perché il nostro dovere è salvare i pazienti.
“Se Tarro è candidato al Nobel io lo sono a Miss Italia”. Questo tweet di Burioni è solo l’apice di una lunga serie di critiche che il virologo le ha rivolto. Come risponde?
No, non voglio fare polemica, ma è curioso che ancora si ascolti chi il 2 febbraio diceva che il rischio di contrarre il virus fosse zero perché in Italia non circolava, quando invece era già in giro. In Italia il virus circolava probabilmente già da moltissimo tempo. L’alta mortalità rispetto agli altri Paesi è dovuta non certo a un virus più cattivo, ma alla sottostima del numero dei contagiati. A gennaio quando si è saputo dell’epidemia in Cina, l’Italia non ha fatto nulla. Forse perché mal consigliata.