L’uragano COVID si è abbattuto sul Servizio Sanitario Nazionale, che oramai da un ventennio è frammentato in 21 diverse sanità regionali a varie velocità e spesso non in grado di garantire in modo uniforme i Livelli Essenziali di Assistenza. Colpa di un sistema di finanziamento che premia le Regioni già virtuose perché giunte ai nastri di partenza in condizioni di palese vantaggio (il divario tra Lombardia e Calabria non è nato ieri) e penalizza ulteriormente chi era già in svantaggio. Già solo il fatto che a qualcuno sia venuto in mente di proporre e realizzare un simile sistema che punisce chi era già zoppo la dice lunga sull’impatto innanzitutto antropologico (sul senso di appartenenza a un’unica comunità nazionale) della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che ha assegnato alle Regioni la competenza sulla Sanità. C’è voluto il COVID a rendere manifesto che la Sanità regionale non riesce ad essere quella soluzione “di prossimità”, in grado d’intercettare e soddisfare le esigenze sanitarie a livello più decentrato, senza nemmeno generare risparmi (ammesso che sia questo l’obiettivo del servizio sanitario), ma spesso allargando a dismisura i cordoni della borsa che gonfiano bilanci regionali mai sufficienti a soddisfare i reali bisogni di salute dei cittadini. Un vero fallimento di cui però resta un “tabù” anche il solo prenderne atto, al pari della necessità di una revisione del modello della medicina di base che possa migliorare l’attività quotidiana e la soddisfazione professionale dei nostri medici di famiglia.
Ciò detto, va dato per scontato che nemmeno la proclamazione di uno stato di emergenza nazionale come quello drammatico che stiamo vivendo potrà mai far balenare l’ipotesi almeno di una temporanea ri-centralizzazione della Sanità, nonostante il bisogno palese di coordinamento non solo strategico ma anche operativo per le necessarie azioni di tracciamento, trattamento domiciliare od ospedaliero, somministrazioni dei vaccini e quant’altro. Preso atto dell’irreversibilità del processo di decentralizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, è forse il caso di interrogarsi su quali miglioramenti sia possibile immaginare senza intaccare il tabù dei 21 sistemi regionali, a partire da una riflessione critica sulle attuali criticità del sistema. Ciò a oltre 40 anni dalla Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, nato proprio per porre termine alle disuguaglianze di accesso alle cure a cui erano esposti i cittadini nel pre-vigente sistema mutualistico, dove le diverse “Casse Mutue” a cui afferivano i lavoratori e loro familiari – in primis l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM), ben amministrato con logiche di efficienza organizzativa e contabile – garantivano però differenti possibilità di visite specialistiche, farmaci, cure e interventi riabilitativi non uniformi tra loro.
Insomma, il SSN è nato per superare problemi di “equità” nell’accesso ai servizi sanitari, ma la regionalizzazione della Sanità ha finito per riproporre lo stesso tipo di problema, stavolta non più legato alle diverse tipologie di lavoratori e relative “casse mutue” di assicurazione sanitaria, ma addirittura alla semplice residenza del cittadino. Lo dimostrano gli spostamenti per motivi sanitari dal Sud al Nord dell’Italia, la localizzazione e il numero di centri di eccellenza o i diversi dati di sopravvivenza tra Regioni meridionali e settentrionali per alcuni tipi di patologie (ad es. il tumore mammario). Sarà quindi il momento di riflettere su come riorganizzare l’assetto della Sanità italiana? E quale Governo potrà mai mettere mano a una riforma, come quella del Servizio Sanitario, che fu possibile solo nel clima di grande unità nazionale seguito al delitto Moro del 1978? Sarà forse la pandemia a ricreare le stesse condizioni di unità d’intenti necessarie a superare gli inevitabili ostacoli legati ai molteplici stakeholders ed interessi in gioco?
Quello disegnato nel 1978 era un sistema universalistico, sul modello inglese messo a punto da Sir Beveridge nel pieno della seconda guerra mondiale (di qui la definizione di sistemi Beveridgiani), dove tutto viene garantito a tutti i cittadini (e persino agli stranieri presenti sul territorio della Repubblica). Niente ticket sanitari o su visite ed esami diagnostici, niente farmaci di fascia C: insomma tutti esenti dalla “compartecipazione alla spesa sanitaria”. Peccato che questo modello, finanziato in maniera proporzionale dalle nostre tasse, si sia rivelato economicamente insostenibile, vigendo in Sanità la regola dell’inversione della legge della domanda e dell’offerta (vale a dire: più servizi sanitari vengono offerti e più se ne aumenta la richiesta). Infatti, il SSN varato nel 1978 è durato appena vent’anni, fino alle Riforme del 1992/93 e il Decreto Legislativo n.229 del 1999 targati Rosy Bindi, che trasformavano le migliaia di unità sanitarie locali (USL) gestite da Sindaci e Consiglieri Comunali in un centinaio di Aziende sanitarie (ASL) assoggettate ai Presidenti di Regione. Questa tipologia di governance aveva dato vita nel caso delle USL al moltiplicarsi di ospedali-fotocopia in Comuni vicini, finanziati sulla base delle giornate di degenza, rendendo poi necessarie le operazioni di accorpamento operate dalle ASL ed il vincolo di bilancio con un nuovo sistema di assegnazione delle risorse basato sulle diagnosi/interventi ospedalieri (i famigerati DRG trasposti in Italia dal sistema assicurativo privato americano) e sul numero dei residenti (la cosiddetta quota capitaria, corretta per indice di vecchiaia e incidenza di malattie rare).
Ma forse il passo falso più nefasto era stato compiuto già nel 1968, quando con la cosiddetta “Legge Mariotti” era stata abolita la personalità giuridica degli ospedali ponendo fine a quel modello virtuoso di gestione rappresentato dai Consigli di Amministrazione ospedalieri che operavano per garantire la qualità di medici, operatori e infermieri da assumere, oltre ad occuparsi del comfort alberghiero (igiene, vitto, arredi) e a re-investire gli utili provenienti dai pagamenti delle “Casse Mutue” degli assistiti o ricoverati direttamente nell’ospedale, per potenziamenti tecnologici, di personale ed infrastrutturali.
E’ probabilmente questo l’elemento positivo, solo parzialmente recuperato con l’istituzione delle Aziende Ospedaliere dalle Riforme Bindi (in cui rientrano solo i maggiori centri ospedalieri o i policlinici universitari), da cui è forse possibile immaginare di partire per migliorare la nostra Sanità senza intaccare dalle fondamenta l’assetto della governance regionale e gli altri pilastri frutto delle recenti riforme. E’ forse ipotizzabile ripristinare la personalità giuridica degli ospedali affidandoli a Consigli di Amministrazione composti da tecnici qualificati, possibilmente provenienti dai territori per recuperare logiche di efficienza, autonomia e di auto-governo che erano un connotato qualificante in positivo del sistema ante 1978.
Alle ASL resterebbero tutti i servizi erogati dai dipartimenti di prevenzione, materno-infantili (consultori, centri autismo territoriali ecc.) e dai distretti socio-sanitari come la riabilitazione e la fornitura di ausili e presidi, l’assistenza specialistica ambulatoriale e la medicina di base. Anche queste ultime potrebbero trovare una qualche forma di revisione in funzione della qualità delle prestazioni erogate, magari certificando i percorsi clinico-diagnostici dei professionisti sanitari con una revisione dell’attuale sistema ECM. Tale ambizioso programma di riforma stava per essere portato a termine dal primo medico vittima del COVID, il Dr Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei Medici di Varese e membro della Commissione Nazionale ECM (con cui chi scrive ha avuto l’onore e il piacere di collaborare proprio per impostare questo progetto “Formazione e Certificazione Professionale di Qualità”).
Rendere autonomi gli ospedali, nell’ambito di una programmazione regionale, potrebbe spingere ad un sistema di concorrenza (sia tra strutture pubbliche che private) verso una sempre maggiore qualità, lasciando ai cittadini la possibilità di scegliere in quale ospedale ricoverarsi “spendendo” la propria tessera sanitaria (che rientra nel finanziamento per quota pro-capite trasferito dallo Stato alla ASL di residenza attraverso le Regioni) nell’una o nell’altra struttura scegliendo sulla base della qualità dell’assistenza che si aspetta di trovare (fattore che è già cruciale oggi nel determinare la cosiddetta “mobilità sanitaria”). E’ un sistema molto simile a quel che già avviene per le strutture private accreditate col SSN ma anche per le aziende ospedaliere e i policlinici, che vengono pagate dalle ASL di residenza dei pazienti sulla base delle prestazioni sanitarie loro erogate. Tuttavia, non dovrebbe trattarsi di mera elevazione di tutti i presidi ospedalieri attivi o anche recentemente dismessi in aziende ospedaliere con triade direzionale di nomina politica regionale (direttore generale, sanitario e amministrativo), ma come detto sarebbe cruciale il ripristino di una governance legata al territorio con consigli di amministrazione formati da tecnici espressione delle comunità locali e dei loro bisogni di salute. A medio termine, un siffatto sistema potrebbe addirittura garantire, quella assistenza di prossimità che si stenta a far partire potenziando il cosiddetto “territorio” ed auspicabilmente fornire ai cittadini le migliori risposte ai loro bisogni di salute nel luogo più vicino a casa.
La proposta è lanciata: chissà che non possa servire di stimolo ad una seria riflessione.